In danger, not dangerous.

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A Gerusalemme è il 17 Dicembre 2013. Ha smesso di nevicare da un paio di giorni, ma rimangono chiazze bianche sulle strade.

Due giorni fa 300 richiedenti asilo politico, soprattutto sudanesi ed eritrei, sono “evasi” dal centro di detenzione di Holot, nel deserto del Negev, e si sono messi in marcia per 100 km verso la capitale, per richiedere il riconoscimento dei loro diritti: non solo quelli di profughi ma anche e soprattutto quelli di esseri umani. Ad Holot ci erano arrivati pochi giorni prima, dopo esservi stati trasferiti da un’altro centro di detenzione per immigrati. Gli erano state promesse condizioni migliori, ad alcuni addirittura la possibilità di circolare liberamente per il paese, e invece si sono ritrovati di nuovo dentro una prigione aperta: impedimento di lavorare, obbligo di firma 3 volte al giorno, separazione fra uomini e donne-e-bambini, divieto di uscire dopo le 10 di sera. Tutto ciò per il loro status, e non per crimini commessi o problemi con la legge.

In Israele ad oggi si contano circa 60.000 asylum seekers; e meno di 200 rifugiati. Lo Stato li definisce infiltrators, “venuti in Israele per ragioni economiche e non perché in pericolo di vita”.  La settimana prima della marcia il governo ha promulgato una legge che permette l’incarcerazione senza processo degli “infiltrati”. Da quel momento sono iniziate numerose proteste.

I 300 hanno camminato per due giorni, vestiti di poco. Prima notte accampati nella stazione dei pullman di Beersheva, seconda ospiti di un gentile kibbutz.

Più loro camminavano, più gli attivisti per i diritti umani si mettevano al loro fianco per supportarli. Al mattino del terzo giorno, quest’ultimi gli hanno fatto trovare dei pullman con cui terminare la marcia e facilitare l’arrivo a Gerusalemme, fra i molti palazzi istituzionali.

 

Questa mattina ad aspettarli c’è un esiguo gruppo di persone, qualche tamburo, molte telecamere e una decina di giornaliste con microfono. Poi c’è un gruppo di poliziotti a qualche metro di distanza, che si infoltisce col passare delle ore, osserva da lontano e incute timore.

L’arrivo dei pullman era previsto per le 10, ma alle 11 non si vede ancora nessuno e i presenti iniziano a preoccuparsi. Presto scadranno le 72 ore, il tempo concesso ai detenuti per stare “legalmente” fuori da Holot. Scaduto quel termine, i poliziotti potranno intervenire e incarcerarli nuovamente, questa volta potendo effettivamente accusarli di aver commesso un reato. Si teme che non arrivino in tempo e che vengano bloccati prima di raggiungere la loro meta, vedendo sfumato l’apice dello sforzo. Iniziano un po’ di telefonate: chi può chiama gli amici attivisti e si fa dare informazioni, per poi farle silenziosamente circolare fra i presenti.

Pare stiano arrivano.

E arrivano cinque pullman. Uno alla volta si fermano e fanno uscire i manifestanti. Il primo pullman si svuota. E così il secondo, il terzo, il quarto e il quinto. I richiedenti asilo marciano per gli ultimi metri nel più assoluto silenzio. Non hanno niente con sé, se non qualche cartello. I tamburi che suonano stonano e fanno innervosire molti, visto che il silenzio è la voce di questi disperati e sta urlando più di mille parole. Guardano in basso. Non c’è esibizionismo in loro, non c’è orgoglio. C’è solo necessità e disperazione. C’è tanta umiliazione e moltissima incredulità per questo paese che non li riconosce come vittime ma come criminali, minacce alla sua integrità.

 

Esprimere ciò che si prova a guardarli in faccia e poi abbassare lo sguardo sulle loro ciabatte consumate è assolutamente impossibile e non provo a farlo. Le telecamere che lo hanno fatto forse in qualche modo ci saranno riuscite, sicuramente ce l’hanno fatta le foto. Soprattutto quelle scattate quando la polizia, non dolcemente, è intervenuta e ha fatto uscire le urla da tutte quelle bocche, di cui la maggior parte, fino a quel momento, erano rimaste chiuse.